- scritto da Lenny Schiaretti
- categoria Progetti
La figura dell'architetto. Da Loos ai giorni nostri
È pratica piuttosto usuale tra i giovani architetti l’inviare senza sosta curricula agli studi professionali, prestandosi come disegnatori CAD, modellatori 3D, elemosinando qualunque tipo di lavoretto affine alle nostre competenze. È però evidente che queste prassi non siano risolutive per le problematiche connesse alla nostra attività lavorativa, nonché al futuro della professione, che non dovrebbe mai dimenticarsi dell’importante ruolo sociale che riveste. Noi per primi, nuovie/o futuri architetti, dobbiamo esser consapevoli dell’indirizzo da dare all’architettura e, di conseguenza, al ruolo che le compete nella società. Adolf Loos (1870–1933), architetto austriaco ed uno tra i pionieri dell’architettura moderna, è stato autore di alcuni fondamentali saggi e molti dei suoi scritti sono ancora oltremodo attuali e possono offrire importanti spunti sui quali riflettere, come lo scritto “I nostri giovani architetti”, tratto da Ver Sacrum, 7, 1898 e pubblicato su “La civiltà occidentale – Das Andere e altri scritti”, (Zanichelli Editore, 1981, pp.61–62).
Renzo Piano e l’ode agli architetti timidi
I NOSTRI GIOVANI ARCHITETTI
L’architettura è ancora un’arte? Si sarebbe tentati di negarlo. L’architetto non ha né fra gli artisti né fra il pubblico la fama di autentico operatore artistico. Il più insignificante dei pittori, il più limitato degli scultori, il più scadente dei teatranti e il più sprovveduto dei compositori si attribuiscono con autorità il titolo di artisti, e tutti approvano senza batter ciglio. Ma l’architetto deve aver già fatto cose egregie, prima di essere annoverato tra le file degli artisti.
Due fattori hanno contribuito a scalzare il prestigio dell’architetto. In primo luogo lo Stato, poi gli stessi architetti. Lo Stato ha introdotto gli esami negli Istituti tecnici, e adesso chiunque si crede autorizzato, dopo aver superato l’esame, a fregiarsi del nome di architetto come se fosse un semplice titolo. Questa farsa è giunta al punto di chiedere al governo di tutelare legalmente il titolo di architetto riservandolo a chi ha sostenuto l’esame di costruzioni presso un Istituto tecnico superiore.
Già il fatto che tutta la Vienna colta non sia scoppiata in una grande, fragorosa risata dimostra a sufficienza come a causa di quegli esami si sia ormai fatta strada l’opinione che l’architettura è una cosa che si può imparare a memoria, e che basta esibire un diploma per garantire una competenza in materia. Ma si provi un po’ ad applicare lo stesso criterio alla musica. La composizione musicale, così affine alla creazione architettonica, dovrebbe allora essere permessa solo a coloro che abbiano superato il relativo esame presso un Conservatorio. Il che apparirebbe subito ridicolo, dal momento che la musica è ancora unanimemente considerata un’arte pura.
Per i veri artisti, i motivi addotti in proposito dagli smaniosi di titoli delle scuole tecniche sono del tutto irrilevanti. “Adesso qualsiasi manovale può farsi chiamare architetto”. E perché no, se lui è contento? Verrebbe forse offuscata la gloria di Beethoven o di Wagner se gli autori di couplets venissero chiamati compositori? Verrebbero forse sminuiti Lenbach e Menzel se qualsiasi imbianchino si attribuisse il titolo di pittore? No di certo. Ma che brutta figura avrebbero fatto entrambi, se in circostanze simili avessero preteso il contrassegno governativo sulle loro opere pittoriche! È una pretesa del tutto assurda.
Ma più ancora degli esami di Stato, sono stati gli architetti a nuocere a se stessi. Si sono degradati e la gente si è adattata. La maggior parte dei nostri giovani architetti, nonostante il titolo di cui si fregiano, nonostante la loro abilità artistica, sono soltanto dei disegnatori per l’edilizia. Per un misero stipendio mensile, simile a quello di un impiegato di commercio non particolarmente capace, si mettono al servizio di imprenditori, di costruttori e di architetti, ritenendolo l’unico sistema per poi mettersi in proprio. Anche l’orario di lavoro è quello dei lavoratori del commercio. È indifferente a questi “architetti” che le loro opinioni artistiche concordino o meno con quelle dei loro datori di lavoro. Anzi, la maggior parte di loro non ne ha affatto. Oggi lavorano in gotico, mentre lo stile rinascimento italiano dell’ufficio accanto appare loro come il non plus ultra. Dicono sempre di si. Ma quando si ritrovano coi loro colleghi di fede prendono bellamente in giro il loro capo – ecco come ci si comporta in termini mercantili già fra architetti – e credono di fare chissà che cosa quando si scagliano contro le vecchie usanze. E il giorno dopo, alle otto precise, sono già di nuovo freschi al lavoro.
Se la nostra nuova generazione di artisti avesse anche il coraggio morale di esprimere con ostinata fierezza le proprie opinioni contro tutte le tentazioni finanziarie, allora la nostra arte potrebbe affrontare il futuro con maggiori speranze. Guardate i vostri colleghi della pittura, della scultura, della musica. Se dipendesse dalla loro arte, essi morirebbero di fame e di miseria. E questo deve saperlo chi vuole fregiarsi del più bel titolo che il popolo possa conferirgli: il titolo di artista!