Fotovoltaico organico dalle foglie, per energia in autoproduzione

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Chiudete gli occhi e immaginate un contadino amazzone che si dirige solerte verso la sua fazenda con due pacchi in mano: in uno vi sono erbacce e foglie secche, nell’altro un mix di sostanze chimiche. Dopo aver seguito delle semplici istruzioni, applica il miscuglio ricavato sulla superficie del tetto, ottenendo così pannelli solari autoprodotti da cui potrà procurarsi energia. Non è un sogno. E’ la visione, che presto potrebbe diventare realtà, di Andreas Mershin, ricercatore del MIT Center for Bits and Atoms, che ha tracciato la nuova frontiera del fotovoltaico organico. Si tratta di estrarre il complesso di molecole responsabili della fotosintesi, conosciute come photosystem–I (PS–I), dalle cellule vegetali presenti in materiali agricoli di scarto, stabilizzarle chimicamente e posizionarle su un substrato di vetro ricoperto di nanofili di ossido di zinco, per produrre corrente elettrica quando esposte alla luce.

GLI SVILUPPI DELLA RICERCA

Tale sperimentazione prosegue quella avviata un decennio fa da Shuguang Zhang, scienziato e direttore associato del MIT Center for Biomedical Engineering: le prime celle solari “organiche” avevano un’efficienza molto inferiore rispetto a quella utile per un loro impiego, inoltre sofisticate e costose erano le strumentazioni da laboratorio necessarie all’assemblaggio e alla stabilizzazione del materiale. Mershin ha il merito di aver semplificato il processo al punto che adesso ogni laboratorio potrebbe replicarlo, permettendo a tutti i ricercatori del mondo di dare il loro contributo all’avanzamento di questa scoperta. L’efficienza del nuovo sistema è 10.000 volte superiore a quella della versione precedente, ma si attesta su valori ancora bassi per la commercializzazione (0,1% di efficienza a fronte del 10–12% di quella dei più diffusi pannelli a silicio policristallino). Tuttavia – assicura lo scienziato – quando la percentuale raggiunta sarà competitiva sul mercato, la portata rivoluzionaria di questa scoperta sarà incalcolabile.

L’ispirazione deriva dalla natura, in particolare dagli alberi di pino. Mershin osservò che la maggior parte di essi dirige i suoi rami verso l’alto, mentre solo una piccola parte li estende anche verso il basso per catturare il residuo di luce che tocca il suolo. “Una foresta microscopica su un chip”, è questa l’intuizione del ricercatore che decide di rivestire i suoi “alberi” dall’alto al basso di molecole PS–I. La foresta di cui parliamo è fatta di nanofili di ossido di zinco e una nanostruttura spugnosa di diossido di titanio, coperti di materiali accumulatori di luce. I nanofili servono non solo da struttura di supporto per gli accentratori di luce, ma anche per trasportare il flusso di elettricità fino allo strato di sostegno del materiale da cui il sistema può essere connesso ad un circuito.

VANTAGGI E POSSIBILI APPLICAZIONI

Il ricercatore spiega che “al contrario dei sistemi energetici fotovoltaici tradizionali, per la produzione di energia usiamo materiali biologici e rinnovabili, invece che sostanze chimiche tossiche”. I vantaggi di questa ricerca, e più in generale del bio–fotovoltaico, che sostituisce i pigmenti organici ai materiali semiconduttori, sono sia economici sia sociali.

I moduli fotovoltaici basati sul silicio hanno un costo di circa 3–4 euro per watt picco (Wp), mentre quelli a celle organiche potranno scendere sotto l’euro per Wp. La leggerezza e la flessibilità dei materiali organici, che si prestano ad essere depositati come inchiostri o evaporati su substrati creando sottili film, consente una maggiore versatilità e integrazione architettonica, scongiurando il forte impatto estetico dei tradizionali pannelli fotovoltaici.

Una maggiore eco–compatibilità è assicurata dai processi industriali di produzione, tipici dell’industria della stampa (fotolitografia), che immetteranno nell’ambiente una quantità molto inferiore di rifiuti tossici rispetto all’industria dei semiconduttori. Inoltre i pannelli “organici” sono biodegradabili.

Oggi il più diffuso combustibile impiegato per l’illuminazione stradale dei paesi meno evoluti, è il cherosene, che è anche il più costoso e dannoso per la salute dell’uomo. “Una buona illuminazione stradale notturna è la giusta via per uscire dalla povertà, perché permette ai contadini che lavorano tutto il giorno nei campi di provvedere alla loro istruzione leggendo di notte”: con queste parole Mershin si augura che il suo esperimento possa presto diventare una possibilità concreta di fornire elettricità low–tech a quelle persone che, pur lontane dal mondo industrializzato, sono come tutte produttrici e consumatrici di elettricità. E, con lui, ce lo auguriamo anche noi.

Barbara Brunetti

Barbara Brunetti Architetto

Architetto e dottoranda in Restauro, viaggia tra la Puglia e la Romagna in bilico tra due passioni: la ricerca accademica e la libera professione. Nel tempo libero si dedica alla lettura, alla grafica 3d, e agli affetti più cari. Il suo sogno nel cassetto è costruire per sé una piccola casa green in cui vivere circondata dalla natura.